Vino e amore caustico

12,00 

di Fabio Rotondo

Romanzo

Un noir avventuroso e coinvolgente… tutto da scoprire!

Quanto è salvifica la sconfitta? Raffaele Ravelli è un ragazzo della Torino bene, anonimo nel suo vivere un destino da privilegiato. Questo però prima di perdere buona parte del patrimonio a poker – per di più contro il primogenito del boss locale, il temibile Zeno Zampogna – e precipitare in un abisso di ricatti, di continui dialoghi interiori con quella parte di sé a lui sconosciuta. Per puro istinto di sopravvivenza, Raffaele si ritrova costretto a saldare il proprio debito con l’assassinio di una persona invisa alla famiglia Zampogna. Come dire: la fine. Eppure sarà proprio la perdita dei suoi averi a renderlo tanto vulnerabile da affacciarsi all’amore, quello con tutte le lettere in maiuscolo, così forte e travolgente – caustico – da donargli la forza e l’imprudenza necessaria per sfidare gli ordini del clan. E pagarne le conseguenze. Da Torino alle Marche e dalle Marche al Portogallo, Raffaele – pedinato dagli Zampogna – affronterà un viaggio all’interno delle proprie paure, nel tentativo di scoprire quand’è che la vita diviene realmente degna di essere vissuta.
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Ecco l’anteprima del romanzo di Fabio Rotondo

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CAPITOLO I

Scala Reale.

Raffaele Ravelli la fissava inorridito, con il suo poker d’assi ancora in mano. Intorno al tavolo i partecipanti osservavano le carte cercando finalmente di scoprire il vincitore, dopo interminabili rilanci e giocate tra i due finalisti: Raffaele e Zeno.

Raffaele realizzò di aver perso, ma rimase impassibile. Zeno, invece, dopo aver assaporato i sospiri di sorpresa da parte degli altri giocatori, esplose di gioia insieme ai suoi due compari, Domenico e Cecilia.

Uno strano trio, Raffaele era la prima volta che li vedeva. Erano entrati qualche ora prima al circolo di poker clandestino di via Santa Chiara, appena un rapido saluto all’anziana proprietaria – Eleonora Elieri – e si erano diretti al tavolo principale. Lui aveva notato subito che in loro c’era qualcosa di poco chiaro. L’accento di Zeno era difficile da collocare, Cecilia pareva la classica donna enigmatica nei suoi sguardi accennati e Domenico, un passo indietro rispetto a Zeno, sembrava l’amico leccapiedi, bruttino, pochi capelli tirati col gel e un naso aquilino che ogni tanto produceva suoni strani.

Raffaele li osservava festeggiare, incapace di realizzare l’accaduto. Bianca e Antonio, due amici soliti a condividere con lui le gioie e i dolori del poker, lo guardavano attoniti e increduli. Aveva perso il suo appartamento di Largo IV Marzo, la sua enoteca, la sua Giulietta decappottabile e 500.000 euro. Insomma, tutto quello che possedeva, e per un briciolo di buon senso rimasto non si era giocato l’eredità: la villa dei suoi genitori sulle colline pinerolesi. Non era la prima volta che puntava tanto al gioco d’azzardo, l’anno prima aveva rischiato tutti i soldi che possedeva in banca e il suo bilocale in Piazza Santa Giulia. Quella volta, però, aveva anche vinto il suo attuale appartamento e due milioni di euro.

Con ancora le carte in mano, scrutava i dettagli del circolo della signora Elieri, che occupava l’intero piano di un edificio settecentesco: il soffitto in legno a cassettoni decorati, i tavoli da gioco, il bancone con gli alcolici e gli stuzzichini… Avvistato il divano, mollò le carte sul tavolo e ci si abbandonò, chiudendo gli occhi per non vedere più niente e nessuno. Bianca versò del vino in un calice e glielo portò, ma non ebbe il tempo di dire nulla prima dell’arrivo di Zeno.

«Stasera mi sento buono. Ti lascerò dormire l’ultima notte nella tua bella residenza. Domattina alle nove sarò lì a prendere ciò che mi spetta. Non credere di poter scappare. Tu non sai chi hai davanti.»

Raffaele aprì gli occhi, inspirò. «Non scapperò. Tranquillo che non scapperò…»

Zeno annuì autoritario, poi uscì insieme a Cecilia e Domenico. I tre, mentre si allontanavano, iniziarono a cantare.

Bianca era visibilmente intimorita da quel genere di persone. Rimase in silenzio vicino a Raffaele, aspettando che le voci svanissero del tutto, poi gli disse: «Lele caro, non sai quanto mi dispiace. Non avresti dovuto giocarti tutto, potevi tenere almeno la casa.»

«Per te è facile parlare. Tu hai appartamenti in tutta la città, se ne perdi uno ne hai altri dieci. Io volevo costruirmi un impero e solo rischiando ci sarei riuscito.» Raffaele rispose d’impulso, fissando il tappeto persiano per sfuggire allo sguardo di Bianca.

«Secondo me hanno imbrogliato. Quante probabilità ci sono che escano un poker d’assi e una scala reale nella stessa mano? E poi chi sono questi? Arrivano e vincono tutto la prima sera?» disse Antonio, in piedi, mentre guardava giù dalla finestra il trio sospetto.

«Lui è Zeno Secondo Zampogna, detto Zezè. Figlio di Don Zeno Zampogna.» A pronunciare quella che sembrò d’immediato una sentenza fu Eleonora Elieri, l’anziana proprietaria del circolo.

«Cosa significa Don? Non sarà mica un…» chiese Raffaele.

«Ovviamente lo è.»

«Oh cielo!» esclamò Bianca.

Raffaele si alzò barcollando e corse in bagno a vomitare.

«Cazzo, Eleonora! Perché fai entrare certa gente al circolo? Siamo persone per bene, noi!» s’indignò Antonio.

«Pensi che possa permettermi di dire no a loro?»

L’uomo balbettò qualcosa di sconnesso. Furioso, si diresse al bancone degli alcolici e si versò del Genepì.

Non erano del tutto nuove queste situazioni al circolo. L’élite che lo frequentava, così come coloro che avrebbero voluto farne parte, era a conoscenza della presenza di losche famiglie della città sabauda. Tutto era un gioco di sguardi, un far finta di nulla finché non si veniva direttamente coinvolti.

Raffaele riemerse dal bagno, pallido come un cadavere. Portava un abito blu mono bottone con camicia bianca, senza cravatta. Lui gli Zampogna li aveva sentiti nominare, ma non li aveva mai incontrati personalmente.

«Raffaele, i tuoi amichetti hanno lasciato questo sul tavolo» gli disse Antonio, avvicinandosi con un oggetto in mano. Raffaele lo studiò: era una statuetta d’argento, poco più piccola di un palmo di mano. Rappresentava una testa di toro e, nonostante le ridotte dimensioni, il suo peso era notevole. L’animale d’argento aveva enormi occhi di diamante blu. Doveva costare una fortuna.

«Me lo tengo, almeno ho qualcosa di ‘sti bastardi.»

«Ravelli caro, se hai bisogno di un prestito non esitare a chiedere» propose Eleonora. L’anziana proprietaria prestava sempre soldi a chi perdeva al gioco. Poi li riotteneva con gli interessi, affidandosi ad alcuni gentiluomini per assicurarsi che le somme dovute le tornassero indietro entro un “breve” periodo di tempo…

«No… ho soltanto bisogno di camminare.»

Prese il suo montgomery e uscì dal palazzo signorile, dirigendosi verso le Porte Palatine. L’aria era fresca e in giro c’era poca gente. Era mezzanotte, Raffaele camminava senza meta per le vie cupe della città, in testa aveva solo spazio per ricordare il suo fallimento e i volti dei famigliari. Poco più che trentenne, era figlio di un’avvocata e di un dirigente Fiat, entrambi prossimi alla pensione. Suo nonno Rodolfo, conosciuto come “Il Senatore” per la lunga carriera parlamentare, una volta in pensione aveva aperto un’azienda vinicola nelle Langhe. Dopo la laurea, il nonno gli aveva regalato un’enoteca in centro città, rifornita coi vini dell’azienda di famiglia e vino portoghese, che suo cugino Gualtiero produceva a Vila Nova de Gaia, sulla sponda del fiume Douro, di fronte alla città di Oporto. Gualtiero era stato mandato laggiù dal nonno dopo la laurea.

Cosa avrebbe raccontato a tutti loro? Aveva fallito clamorosamente.

Continuava a camminare immerso nei suoi pensieri in quella nebbiosa e pungente notte torinese. La punta della Mole neanche si vedeva. La sua vita era come Torino: una città splendida rovinata da inquinamento, mala amministrazione e abitanti irrispettosi. Lui, però, era la principale rovina di sestesso. La chiesa della Gran Madre di Dio rifletteva nell’acqua la sua enorme cupola blu. Raffaele fissava il tempio riflesso che brillava sul fiume, le decine di bottiglie di plastica che si lasciavano trasportare, le biciclette a noleggio incastonate sul fondale e l’esotica vegetazione fluviale che si faceva spazio tra i rifiuti. Sebbene il contesto non fosse invitante, decise di buttarsi. Il desiderio di congiungersi col fiume gli si insinuò nella testa improvviso come un fulmine e non se ne andò più. “Suicidarmi è l’unico modo per superare quest’umiliazione.”

Raggiunse il ponte e scavalcò la ringhiera tenendosi a un’asta che sorreggeva le bandiere tricolore. Non aveva intenzione di chiedere aiuto alla sua famiglia, non l’avrebbero mai perdonato. Non aveva neppure intenzione di farsi prestare i soldi dalla strozzina del circolo o di passare davanti all’enoteca Ravelli e scorgere all’interno dei farabutti che gestivano la sua attività. Chiuse gli occhi e respirò profondamente.

Udì dei passi avvicinarsi, doveva fare in fretta. Non voleva sapere chi fosse, non voleva aiuto. Non desiderava nemmeno voltarsi verso la vita passata, il solo aprire le palpebre poteva costare ripensamenti o inutili perdite di tempo. Si sporse in avanti, mantenendo gli occhi chiusi. Le dita erano tese sulla ringhiera, la mano sinistra era aggrappata al ferro della bandiera.

Le gambe gli tremavano. Inspirò e lasciò la presa dell’asta.

 

GRAZIE ai lettori e alle lettrici che hanno preordinato il libro e permesso a Fabio di realizzare il suo sogno.

Il crowdfunding però continua per raggiungere nuovi obiettivi!

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