Uomini del destino

12,00 

di Chiara Romanello

Era destino che nella mia vita incontrassi due uomini:uno ha tentato di uccidermi, l’altro ha tentato di salvarmi.

Gabriele, in seguito alla morte della madre, decide di allontanarsi dal paesino in cui vive per trasferirsi a Torino, in cerca di lavoro. Trova occupazione come domestico, in una villa tanto lussuosa quanto – secondo le voci di chi l’aveva abitata nel passato – infestata da fantasmi.
Ma ben presto Gabriele scopre che i sinistri rumori che si odono tra le stanze non hanno origini soprannaturali, ma sono causati da una ragazza, Sofia, tenuta nascosta dal proprietario in una delle camere della villa per via del suo aspetto: terribili ustioni le ricoprono metà del corpo.
Mentre il giovane si interroga sui reali motivi della reclusione, l’amicizia con Sofia inizia a instillare nuovi dubbi: si sta nascondendo di proposito? E da chi? Qual è il segreto che si porta appresso?
Le domande arrovellano e coinvolgono il lettore alla ricerca della risposta al quesito più grande: riuscirà Gabriele a mostrare a Sofia la vita al di là della villa?
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Ecco un’anteprima del romanzo di Chiara Romanello.
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Lentamente alzò lo sguardo verso di me e con una mano tirò indietro i capelli.
Non so davvero come riuscii a trattenermi dal non sembrare sconvolto. La pelle del lato sinistro del volto sembrava ricoperta di squame e capii subito che si trattava dei segni lasciati da una grave ustione. Le cicatrici partivano da metà fronte, correvano giù per il naso e attraversavano la guancia sinistra fin lungo il collo, proseguendo per il resto del corpo, dove il mio sguardo non poteva andare. La pupilla dell’occhio sinistro pareva avere una patina offuscata e immaginai che avesse perso la vista da quel lato. Il suo viso sembrava diviso a metà. Il lato destro era assolutamente normale, con la pelle chiarissima e l’occhio scuro, come l’altro, ma vivace e luminoso. Doveva essere stata davvero una bella ragazza prima di quell’incidente.
«Sono… un mostro.»
D’istinto le domandai «Hai mai pensato di fare male a qualcuno?» e lei mi fissò con gli occhi lucidi.
«No, cosa dici?»
«Rubato? Truffato? Ucciso? Hai mai fatto soffrire qualcuno per il gusto di farlo?»
La ragazza sembrava irritata.
«Per chi mi hai preso? Sono brutta, ma non ho mai fatto niente di tutto ciò!»
«Allora non sei un mostro. I mostri sono altri. Se l’aspetto esteriore rispecchiasse l’anima delle persone, ci sarebbero un sacco di “mostri”, come dici tu, che camminerebbero per strada, senza vergognarsi. Ma tu non saresti tra quelli.»
Per un attimo, un attimo appena, sul volto di Sofia affiorò un sorriso.
«Ti fa male?» Lei scosse la testa. «…Posso?»
Sofia si ritrasse di colpo, ma poi si avvicinò, mi prese la mano e l’appoggiò sulla pelle bruciata.
Chiuse gli occhi mentre io le accarezzavo la guancia, il mento e il collo. Sembrava di toccare del cuoio ruvido e grinzoso, ma non provavo ribrezzo. Riuscii a percepire tutto il dolore che quelle cicatrici avevano causato al suo animo.
«E dimmi… Cosa ti è successo?»
«Avevo pochi mesi di vita. Mia madre disse che ci fu un incidente domestico, un incendio. Sono viva per… miracolo.»
«Un incidente? Come…»
«Non lo so, non ho mai potuto chiederglielo. Dopo quell’incidente mi portò da mio nonno e mi abbandonò qui.»
«E quindi sei la nipote del signor Bertone…» Smisi di accarezzarla, cercando di riprendere una distanza consona al primo incontro con una persona.
«Esatto.»
«Tua madre ti ha abbandonata? Che madre farebbe una cosa simile?» Non riuscivo a smettere di fare domande, i suoi occhi sfuggenti mi costringevano a non restare in silenzio.
«Una che non doveva diventare madre, direi.»
«E tuo padre?»
Sofia scosse la testa. «Non ne ho idea. Quando lei mi portò qui non era in buoni rapporti col nonno, non si parlavano più da qualche anno e lui ignorava perfino della mia esistenza. Lei non era sposata, probabilmente la mia nascita è stata un errore fin dall’inizio.»
«Una nascita non è mai un errore.»
Sofia rimase in silenzio, evidentemente in disaccordo con la mia affermazione.
«Perché ti nascondi qui? Ti vergogni del tuo aspetto?»
«Un po’ per quello e un po’ per evitare ulteriore imbarazzo a mio nonno. Di giorno dormo e di notte passeggio, leggo, suono, faccio quello che mi piace…»
«Lo sai che hai spaventato un bel po’ di persone facendo così?»
«Se mi avessero vista sarebbe stato anche peggio.»
Ancora il suo sguardo lontano, e io ancora mi sentivo in obbligo di parlare, timoroso che il silenzio potesse farla svanire, che trasformasse l’incontro in un ricordo artificiale, in una cicatrice di ferite mai avvenute.
«Quanti anni hai?»
«Diciotto.»
«Non sei mai uscita?»
«Mai lo farò.»
«Non ti è mai venuta voglia di vedere cosa c’è oltre queste mura?»
«Mio nonno dice che sono troppo debole. Mi ammalerei.»
«Sono scuse, lo sai.»
«Provi pena per me?»
«Sì, ma non per via del tuo aspetto o della tua storia. Provo pena perché ti sei arresa e non hai nemmeno voglia di provare a combattere per avere una vita migliore.»
«Non mi sono arresa, accetto ciò che deve essere senza lamentarmi.»
«Ciò che deve essere lo decidi tu e nessun altro.»
«Infatti è così.»
«No, hanno deciso gli altri, perché per te conta di più ciò che le persone direbbero guardandoti!»
«È molto tardi, dovresti andare a dormire» mi rispose, guardando altrove.
«E tu dovresti mettere qualcosa ai piedi… non hai freddo?» Notai che anche il suo piede sinistro era deturpato come il suo viso.
«No, non patisco il freddo.»
«È per via dell’incidente?»
«Può essere… sai, anche il fuoco mi spaventa, ma credo che tutti ne abbiano paura.»
«Quindi non ti ricordi niente…»
«A volte ho delle immagini, ma non so se siano ricordi reali o solo sogni confusi. Poco importa. Vedo le fiamme che mi avvolgono e una luce potente che mi brucia gli occhi, sento la pelle pizzicare. Dura solo qualche secondo, ma è spaventoso.»
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto.
«Adesso però è il tuo turno, abbiamo parlato solo di me!» esclamò, e finalmente la vidi sorridere.
«Posso chiamarti Lele? È vero che abitavi in provincia?»
– Certo! E sì, in un piccolo paese. Stavo con mia mamma e, quando mancò, decisi di trasferirmi in città. Mio padre invece morì prima che io nascessi.»
«Due belle storie allegre, le nostre!»
Chissà perché in quel momento scoppiammo a ridere. Non è da tutti ridere insieme delle proprie disgrazie. Restammo in quella stanza tutta la notte, parlando di me, di lei, delle nostre avventure, di quando eravamo piccoli. Con lei misi a nudo la mia anima, senza alcun timore, senza alcuna vergogna. Scoprii che, dietro a quella maschera di sofferenza, si nascondeva una giovane intelligente, sensibile e con mille sfaccettature.
 
Quando infine il sole spuntò pallido da dietro la collina, ripensai al pendolo: “Tempusfugit”.
«Devo andare o Carmelina mi tirerà le orecchie, le ho promesso che l’avrei aiutata con il pranzo di Natale.»
«Grazie.»
«Di cosa?»
«Di essere riuscito a farmi dimenticare i problemi.»
«Ringrazia te stessa, io non ho fatto niente.»
Stavo per uscire dalla camera, quando mi chiamò: «Lele?»
«Sì?»
«Buon Natale.»
«Sai, io ho già avuto il mio regalo.»
«Davvero? E cos’è?»
«Ho conosciuto te.
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