Atlantica

15,00 

di Alessandro Perriello

 

Mi chiamo Gabriel, ma fa’ conto che io sia te, che tu sia me e che entrambi siamo le parole di questo viaggio. Un viaggio che si biforca, diviene altro, così come noi ci riprogrammiamo il futuro dopo ogni singola scelta.

No, così non funziona: riavvolgiamo.

Mi chiamo Gabriel, ho il dono di uscire con ragazzi sbagliati. Lavoro nella moda, eppure non riesco a vestirmi l’anima di felicità.
Mmm… mi sto avvicinando, provo a riavvolgere ancora una volta.

Mi chiamo Gabriel, sono il frutto acerbo di scelte sbagliate. Ma poi esiste davvero la possibilità di sbagliare una scelta? Non è solo un percorso più accidentato per raggiungere una meta?
Sto viaggiando fuori e dentro me alla ricerca di Atlantica, il luogo dove risiedono le risposte a tutte quelle domande che ancora non riesco a formulare.
Atlantica mi sta aspettando, nel “chissà dove”, in attesa.
Sarà bellissima, lo sento.

 

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PLAY.

La vita è dura per tutti.

È mezzanotte o qualcosa del genere e sono qui senza valigia. Vicino a me una ragazza vestita da cosplayer guarda imbambolata il nastro trasportatore. Mi domando se nel suo bagaglio ci fossero i costumi di scena, la immagino vagare per Malaga eternamente abbigliata da Sailor Moon. Ci guardiamo affranti, ci salutiamo senza parole. Next!

Il tipo del noleggio auto non ne vuole sapere: devo ritirare la macchina. Malaga non è così lontana dall’aeroporto e il mio albergo si trova proprio in centro, poco lontano dal Museo di Picasso.

≪Chiuso per restauri≫ spiega il tizio. Evviva!

E comunque non posso davvero tornare domani, dopodomani o nel Duemilamai?

Alla valigia ci penso in un altro momento?

E come la mettiamo con il mio cellulare che è andato, non chiedermi come, poco prima del decollo?

Come ci arrivo in albergo senza un navigatore?

≪La macchina non ha un navigatore integrato, signore≫ mi rivela lui, allungando verso di me una piantina.

Sul serio, esistono ancora? Aspetta, non ho nemmeno lo spazzolino da denti!

Contratto firmato, chiavi ritirate. Ok, adesso mi calmo.

Morirò.

Non ho scelta: mi avvio verso la macchina minacciosa, che mi attende impaziente nei sotterranei dell’aeroporto. Nella scenografia di una mostruosa macelleria mobile di mezzanotte aziono l’apertura, entro, la metto in moto – ovviamente non trovo le luci – respiro a fondo, mi impongo di calmarmi. Esco finalmente dal clima sintetico dell’edificio, imbocco viali sconosciuti che portano verso una nuova città, alla ricerca di una certa piazza che ospita a sua volta il Museo di Picasso e il mio albergo, mi pare di avere capito.

So di marcio. Ho bisogno di una doccia.

Ha ufficialmente inizio il mio viaggio on the road in Andalusia.

 

REWIND.

Arrivo attorno alle 7.15 dopo aver respirato discorsi asfissianti nel treno che, ad alta velocità, mi ha portato dalla Grande alla Piccola Città.

Distrutto dal viaggio, vengo espulso sul marciapiede grigio all’interno della nuova scenografia della mia vita. Dopo essermi infilato due dita in gola per vomitare storie non mie, fermo un taxi. Nel frattempo registro distrattamente che la tipa che era seduta davanti a me, quella accompagnata da una bimba equipaggiata di una borsa di vimini rosa con la scritta ricamata “Saint Barth, The place to be!” sta abbracciando il marito, venuto a prenderla in stazione.

Lui l’ha tradita, forse ieri sera, magari con una sua amica o chi può dirlo, perché la abbraccia, ma lo fa in modo sbagliato.

≪Come hai capito che ti tradivo?≫ ricordo che mi chiese, una volta, qualcuno.

≪Da come ti muovi.≫ E avevo ragione.

Comunque.

Durante il tragitto osservo il cielo tagliato in innumerevoli spicchi da tubi grigiastri di ponti sopraelevati, costruiti dalla Compagnia in un eccesso di onnipotenza. La Piccola Città è un prodotto della Compagnia stessa: case, negozi, ristoranti, qualunque cosa porta la “sua” firma.

Quando finalmente arrivo, sono in una sorta di ospedale: tutto è asettico. I suoni mi giungono ovattati e le persone che incrocio sembrano esseri oblunghi di un altro pianeta, Alpha Centauri, per dire. Oltrepasso uffici, laboratori, immaginando creature ibride tra l’umano e l’alieno che compiono esperimenti inquietanti su giacche, gonne, pantaloni. Qui si producono abiti, non si salvano vite e neppure si costruiscono missili, come qualcuno potrebbe pensare.

Avverto un certo senso di familiarità, seguito da quindici minuti durante i quali il mio database viene aggiornato con appuntamenti, varie ed eventuali. La mia vita è già pianificata per i prossimi sei mesi, poi si vedrà.

Casey, la responsabile dell’ufficio dove lavorerò, mi chiede da dove io provenga e cosa abbia fatto prima di essere qui, con lo stesso stupore di chi potrebbe chiedere a un pesce come si sta fuor d’acqua, essendo che questa realtà sembra essere per lei – per loro in generale – l’unica dimensione possibile. All’improvviso capisco di essere sul set di un film horror, uno di quei b-movie dove non si parla di case infestate, bensì di intere città in preda al Male.

Ma qui non c’è tempo da perdere: solo poche altre parole e devo dirigermi nel Campus aziendale. La macchina bianca è già pronta e io ho circa quattro ore: al mio arrivo, avrò l’onore di entrare nella Biblioteca aziendale per scaldarmi un po’, che qui significa: fare ricerca. Ci sono troppe cose da fare e il mio posto è vacante da tempo. Non oso chiedermi cosa sia successo a chi c’era prima di me.

Arrivato a destinazione, mi accoglie un paesaggio alieno fatto di bianco, grigio e un tocco di arancio, la qual cosa mi affascina, essendo io abituato a pensare che la Base Lunare Alfa fosse solo frutto di fantasia. Attraversate innumerevoli porte mi ritrovo laddove era già previsto da tempo dovessi arrivare: un cubo bianco foderato di scaffali d’acciaio che, orgogliosamente, custodisce la collezione di libri della Compagnia.

È avvenuto tutto troppo velocemente ma terrò duro: la mia nuova vita comincia adesso.

 

PLAY.

Il mio smartphone è irrecuperabile. Dentro c’era anche il navigatore. Fantastico.

Seguo l’indicazione per il porto e finora sembrano non esserci problemi, ma già so che arrivato ai viali sarà un’altra storia perché non ho riferimenti, non ho una valigia, non mi è rimasto nulla. Non dovevo venire. Come mi può essere venuto in mente?

Arrivo ai viali. Mi dirigo verso quello centrale, ma come mai mi ritrovo sul laterale? Ok, mi fermo, sono nel panico.

Scendo dalla macchina, accendo una sigaretta. Ne accendo un’altra, intanto non trovo le luci. Realizzo che sono fuorissimo. Come torno indietro? Ok, adesso sono in ballo e non posso certo accamparmi in riva al porto, o forse sì?

Bene, ottimo, ora mi calmo e ce la faccio.

Su, da bravo, infila la chiave, girala così, ok, il motore si accende, evviva! Un po’ di retro e imbocca il viale centrale.

Ok, ci sei, vai avanti, non così avanti, torna indietro, cerca una rotonda, maledizione e per fortuna questa città è fatta di rotonde. Se non stai attento qua finisce male e chissà come mai ecco un tunnel, ancora poco e arrivi nella piazza malefica.

Faccio tre lunghi respiri, giusto per non morire, mi infilo in strade minuscole, di certo Christine, la macchina infernale, non la lascio qua, parlo un impossibile spanglish, chiedo informazioni e sì, va bene ho capito che questa è la piazza che cercavo, fantastico, ma esiste un parcheggio?

Lo trovo, posteggio l’auto, scendo, apro il baule ma che ridere, quale valigia devo prendere?

Ritiro il biglietto. Christine sta bene quaggiù fintantoché non decido sul da farsi che tradotto in linguaggio umano suona più o meno “fin quando non mi sarò calmato”, che potrebbe essere MAI, ovviamente.

Guadagno le scale, ritiro un biglietto lurido e vischioso, esco, rischio di essere investito da un automobilista sfasciato, mi trascino attraverso la piazza impacchettata, entro in una viuzza, guadagno l’entrata di una porcheria di Hotel decorato da un daltonico, suppongo, visto che qui mischiare giallo con viola e rosso sembra una buona idea. Poi mi domando cosa possa pensare di me il tipo veramente oh-così-carino al banco, dato che sembro pazzo anzi meglio, probabilmente lo sono.

Sono arrivato. Non ci credo.

Ascensore.

Arrivo davanti alla porta azzurra, un colore che non avevo ancora visto in questo posto. Infilo la scheda. La porta si apre. Lo so, non dovevo perdere la calma.

Un letto. Mi sdraio.

Ho perso tutto, anche la mia dignità. Dove è finito il mio autocontrollo? Deve esserci un perché, ma adesso non riesco proprio a capire.

Ti penso e non posso fare a meno di chiedermi dove tu sia. Questo non va bene. Tu non ci sei più ed è per questo motivo che io sono a Malaga, Andalusia, Spagna.

 Addio Blaine.

Avessi almeno la mia valigia! Mi dispero, piango, mi addormento, ma non necessariamente in questo ordine.

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